A Campiglio 10 magici anni

Autore: Alberta Voltolini

L’estro creativo di Enrico Croatti e la sua genialità, insieme alla lungimirante visione imprenditoriale e alla fiducia accordatagli dalla famiglia Zambotti – proprietaria del DV Chalet Boutique Hotel & SPA e dell’annesso ristorante “Dolomieu” – hanno permesso di realizzare nel cuore delle Dolomiti un’esperienza unica e memorabile di alta cucina.

L’EXECUTIVE CHEF ENRICO CROATTI LASCIA LE TERRE ALTE E GUARDA A NUOVI SOGNI 

Come e quando si è rivelata la sua passione per la cucina?

La causa è stata una tagliatella, a 12 anni, quando, in cucina a fianco di mamma Franca, ho messo per la prima volta le mani in pasta. Il contatto con la materia e i profumi dei prodotti mi hanno colpito con una magia che giorno dopo giorno esercitava su di me un potere crescente. Più passava il tempo più ne ero consapevole e così, al momento di scegliere la scuola superiore, ho messo la crocetta sull’istituto alberghiero, contro i suggerimenti della mamma che mi sconsigliava questa strada per l’impegno che richiedeva, compresi i sabati e le domeniche che non sarebbero più esistiti.Avevo fame di diventare un grande cuoco e ho bruciato tante tappe Mentre frequentavo la scuola, nei weekend lavoravo gratis per arrivare lunedì con le spalle più forti dei miei compagni. La scelta fatta allora oggi non la considero un lavoro, ma una vocazione che mi appartiene, la mia vita. 

Ci racconta le sue esperienze lavorative prima di arrivare a Madonna di Campiglio?


Riassumerei quel periodo con l’immagine di un viaggio: parto dalla mamma, sperimento alcune situazioni di responsabilità nella mia terra, in Romagna, come chef di cucina, poi compio il primo passo verso le montagne, al Grand Hotel Miramonti Majestic di Cortina, dove conosco l’alta hotellerie. Quindi, dall’alta quota, volo negli Stati Uniti, a Los Angeles, con in testa di rimanerci per uno stage di tre mesi e dove, invece, alla “scuola” di Gino Angelini, mi fermo per quattro anni.

E l’incontro con i suoi maestri?

Desideravo tantissimo conoscere una persona, Gino Angelini, riminese, con il quale tutti i miei colleghi stellati hanno lavorato da giovani. Gli ho inviato una lunga mail di presentazione che, per pura casualità, ha letto subito rispondendomi con una frase: “Sono interessato, chiamami”. 

La vita è fatta di scelte, io guardo al futuro, sempre, non al passato.

I primi venti giorni mi ha messo alla prova in maniera spaventosa, poi si è creato un feeling e in fine mi ha proposto di fare lo chef di cucina nel suo ristorante gastronomico “Laterza”. Quando me l’ha comunicato ho sentito un iceberg cadermi addosso. È stata un’esperienza incredibile non solo di lavoro, ma di vita, che mi ha permesso di capire cosa volesse dire essere un cuoco.
Dopo quattro anni tra stage e lavoro sono rientrato in Italia. 

Quelli americani sono stati anni importanti, di formazione, di voglia di arrivare, ma anche di tenacia e determinazione nel superare prove difficili...

L’Osteria Angelini non è per tutti, significa grande manualità, tradizione, talvolta rigidità. Ogni piatto deve essere perfetto. Appena arrivato, mi hanno messo dietro una grande stufa senza mostrarmi alcun menu. Ero lì, io e il mondo, e dovevo capire cosa fare in quel momento, se scappare o rimboccarmi le maniche e stringere i denti. L’America mi ha fatto dire, “Enrico, non sei capace di far niente”, e anche piangere.

Da parte sua, Angelini, mi ha detto: “Terminata l’esperienza con me avrai due possibilità: o sarai finito o non ti spaventerà più nulla”.

Allora non gli avevo dato tanto peso, ma oggi capisco sempre di più che quella frase era stata lungimirante e tutto quello che ha fatto con me, il mettermi così a dura prova, era finalizzato alla sua dichiarazione conclusiva: “Tu sei nato chef”.

Nel tuo percorso professionale c’è anche la Francia...


La cucina francese, per un cuoco, è un tassello fondamentale. Ho imparato le forti tradizioni, le tecniche classiche, talvolta anche la rigidità di questa cucina, il rispetto che i cuochi francesi hanno per i loro prodotti e la difesa della loro storia, fino all’incontro con il grande maestro Paul Bocuse (considerato tra i più grandi chef del mondo, tra gli inventori della nouvelle cuisine, è stato l’unico chef a mantenere le 3 Stelle Michelin per cinquant’anni ininterrottamente, ndr), un sogno nel cassetto che ho realizzato. Il suo lato così umano mi ha spiazzato.

Oggi che non c'è più, considero quella conoscenza un momento straordinario della mia vita, anche sotto il profilo privato. Mi ha fatto capire il valore di essere umili. Ricordo ancora monsieur Paul, il “papa” o “papà” della cucina come lo chiamano in Francia, ricevere tutti i clienti sulla porta del ristorante, girare tra i tavoli e chiedere agli ospiti se volevano fare una foto con lui. 

Quando la sua vita e il suo percorso professionale hanno incrociato Madonna di Campiglio?


A volte non disegni il tuo percorso, le cose semplicemente accadono. E così, appena tornato dagli Stati Uniti, quando la montagna la sentivo tanto lontana, Madonna di Campiglio mi ha stregato. Una sera, salito a Madonna di Campiglio per trovare degli zii con casa poco distante, davanti a una pizza, scambiando quattro chiacchiere con il gestore, si è arrivati a parlare della famiglia che stava per aprire un nuovo boutique hotel. Tutto è iniziato lì, da una conversazione casuale e una telefonata “in diretta” tra il gestore della pizzeria e l’ingegner Tiziano Zambotti. Creato il contatto, ci siamo incuriositi a vicenda ed è stato facile e immediato fissare un appuntamento. Ancora non vedevo un possibile progetto lavorativo a Campiglio, ma il futuro si è rivelato diverso dal previsto.

La prima volta che ha visto il DV Chalet Boutique Hotel & SPA, la cucina e la sala da pranzo di quello che sarebbe diventato il “Dolomieu”, che sensazioni ha avuto?

Quando ho incontrato la proprietà, l’hotel era quasi finito e osservandolo dall’esterno ho colto l’essenza di una maison di montagna che mi trasmetteva magia. Varcato l’ingresso, l’incantesimo si è amplificato alla massima potenza. Sono entrato in cucina, ci sono stato quaranta minuti a luci spente, in silenzio, per capire se in quello spazio si poteva realizzare il sogno mio e della proprietà. Il feeling è stato immediato e in quella mezz’ora e poco più ho visto scorrere nella mia testa il film che stava per nascere.

Come si è alimentato il progetto “Dolomieu”, diventato ristorante 1 stella Michelin nel 2013?

Da quel momento iniziale di reciproca conoscenza sono cominciati dieci fantastici anni di vita, lavoro, crescita ed emozioni difficili da descrivere.

Per me il “Dolomieu” è un figlioSono stato un motore che ha voluto trasmettere alla proprietà idee e obiettivi sempre diversi. Non mi sono mai fermato e anno dopo anno ho introdotto qualcosa di nuovo. L’ingegner Zambotti, sua moglie e tutta la sua famiglia mi hanno dato la possibilità e la libertà di costruire con loro qualcosa di magico.
Sì, magia è la “mia” parola, l’espressione che si sposa perfettamente con il periodo “Dolomieu”. Ho avuto l’opportunità di far crescere il ristorante, una stella Michelin dal 2013, socio di “Euro-Toques”, da pochi mesi entrato a far parte dell’Associazione “Le Soste”. Definirei il “Dolomieu” un insieme di dettagli, situazioni, esperienze nati passo dopo passo dalla complicità, dal sogno comune tra me e la proprietà di portare a Campiglio una maison che andasse oltre il ristorante di un hotel. Il ringraziamento che rivolgo alla famiglia è dunque speciale.

LA CUCINA CHE HO CREATO AL “DOLOMIEU” È UNA CUCINA RAGIONATA E DI SENTIMENTO.


I dieci anni sulle Dolomiti di Brenta sono stati dieci anni anche di viaggi e di esperienze


I mesi durante i quali il ristorante è chiuso sono, per noi cuochi, la stagione della ricerca, della sperimentazione e della progettazione. In questi anni ho avuto la possibilità di viaggiare molto, prima in Francia e poi in Spagna (con un’esperienza al ristorante “Akelarre”, 3 stelle Michelin di San Sebastian, ndr) dove ho conosciuto la tecnica e la creatività assolute.

 
Come applica ciò che impara alla sua cucina?


Dopo aver visto e compreso, torno nella mia cucina e rielaboro tutto ciò che ho fatto fino a quel momento compiendo un passo più alto. Questo non vuol dire copiare, ma ragionare. Anche le sperimentazioni più creative e i piatti d’avanguardia sono stati sempre ragionati, studiati e provati prima di essere proposti agli ospiti.

Cosa ha significato Campiglio per te e per la tua vita professionale? Qualche anticipazione sul tuo futuro?

Amo Madonna di Campiglio, che non è un paese di montagna, ma una situazione del tutto particolare che mi ha dato la possibilità di interagire con una clientela internazionale, esprimere la mia cucina, essere creativo e talvolta uscire dagli schemi. Se sei ambizioso e punti in alto devi avere gli ospiti giusti che ti supportano, altrimenti anche il progetto migliore svanisce. Se il “Dolomieu” ha raggiunto un’età matura, dall’altra, per quanto mi riguarda, è giunto il momento di proiettarmi verso un nuovo sogno che ho nella testa. È stata una scelta difficile, il “Dolomieu” è dentro di me e lo sarà sempre, ma ho sentito che era corretto lasciarlo ora, perché ci sono l’età e la forza giuste.

 
Quale eredità lasci al tuo successore?

Gli lascio un ristorante stellato, una cucina operativamente di livello dove le idee nascono costantemente perché c’è un laboratorio, creato dall’ingegner Zambotti, che ha la tecnologia e i mezzi per farlo. Lascio un meccanismo avviato con riconoscimenti importanti, sette tavoli che sono un’officina di sperimentazione dove si va non per andare al ristorante, ma per vivere un’esperienza.
La ricerca e la scelta dell’erede è stata mirata e sto interagendo con lui per il passaggio di consegne.

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